Oggi la nostra redattrice Giulia Quaranta Provenzano ci propone l’intervista alla photographer, film-maker e ArtPerformer, ThetaHealer. La donna, con l’occasione, si è un po’ raccontata…

Buongiorno Chiara! Vorrei iniziare la nostra chiacchierata chiedendoti come, quando e da quale esigenza interiore nasce in te la dedizione alla Fotografia (link 1 – link 2). “Buongiorno Giulia! Iniziai a fotografare con una macchina professionale analogica a tredici anni d’età. Mi avvicinai alla fotografia perché sono sempre stata affascinata dall’impermanenza della luce e del tempo, entrambi evanescenti, sfuggenti, sacri… e dalle immagini che si sfaldavano davanti ai miei occhi nel qui e ora come se nulla potesse avere il potere di fermarle e, forse, di viverle davvero senza freni… un po’ come se tutto dovesse trasformarsi anche per andare a morire. Perfino un muro lo percepivo vivo, in trasformazione, in movimento a causa della luce e delle ombre. I colori mi arrivavano già come frequenze di calore, cangianti. Una foglia spesso aveva in un attimo mille gradazioni di verde in continua evoluzione, idem una pietra, l’acqua. Mi accorgevo che, osservando i vuoti e i pieni di ogni corpo materico, la mia attenzione e connessione cosciente si potenziava e si ampliava lo stato di coscienza. La mia osservazione già da bambina era animica e in relazione all’olos. Sarei potuta stare delle ore a guardare una persona parlare per vedere quante sfumature le sue labbra, i suoi occhi, i suoi capelli mi offrivano senza mai poterle afferrare. Non erano mai uguali a quelle dell’istante prima. Il corpo macchina mi teneva agganciata proprio nel qui e ora ovvero nello stato naturale della Vita, un luogo assente di complessità. Fotografare in manuale significa che non puoi sbagliare, devi essere attenta, veloce, presente, empatica, sei quasi padrona del tempo. La fotografia mi faceva sentire una ricercatrice dello stato di presenza perché mi metteva in relazione al vuoto silenzio, che poi è diventato il luogo nel quale ho iniziato a creare”.

Tu sei una fotografa autodidatta o hai alle spalle uno specifico percorso di studi – e sei d’accordo o meno con chi ritiene che ci siano delle differenze di “riuscita” qualitativa tra i due approcci? “Mi sono avvicinata alla fotografia anche grazie a mio padre, artista, sebbene ricordo che da bambina – oltre a passare molto tempo ad osservare dal vivo – amavo sfogliare riviste piene di immagini, cercando di capire come erano state composte o semplicemente nutrendomi della bellezza di un viso, di un paesaggio, di un edificio. Guardando un film avevo difficoltà a seguire la trama perché mi concentravo sulla fotografia, che componeva la scena. Appena ho potuto, a tredici anni d’età appunto, ho scelto subito una scuola che mi permettesse di comprendere e approfondire meglio tale tecnica e la ripresa video. Ho studiato per otto anni, alla Scuola d’Arte, fotografia in analogico – sviluppando i rullini e stampando in camera oscura e, successivamente, ho fatto dei master a Milano per specializzarmi maggiormente sia nella fotografia che per quanto riguarda la regia video e quella televisiva, i set luci, la scenografia e l’editing. Non c’era ancora il digitale. Per me fotografia e video sono sempre stati lo stesso mondo. Avrei potuto fare una fotografia e allo stesso tempo un film, non ho mai avvertito la differenza nemmeno a livello tecnico. Posso dire che chi non ha un background di scatto analogico, incluso sviluppo e stampa, non è al corrente di cosa sia davvero l’immagine e il saper osservare. Rispondendo quindi alla domanda, io sì, sono autodidatta ma per quanto riguarda il digitale. I programmi di editing in digitale li ho imparati da sola”.

Da piccola chi avresti voluto diventare “da grande” e che bambina sei stata? “Non mi sono mai sentita piccola e dunque non mi sono mai chiesta cosa volessi fare da grande. Chi ero, mi era chiaro fin da bambina. Ero una ‘ricercatrice dello stato di presenza’, non ho mai avvertito più tanto il luogo mentale del passato e del futuro, o meglio non mi hanno mai influenzato più di tanto. Cercavo di stare nel presente. Pensare al futuro mi introduceva in uno stato di inutile ansia e lo evitavo. Non ho mai sentito neppure il desiderio di giocare, per me vedere una libellula nei suoi colori e nella sua velocità mi riempiva già la giornata. Sono arrivata a fotografare e filmare perché dovevo in qualche modo rendere visibile l’invisibile ed esserne testimone, osservatrice. Concetto, questo, che ho sviluppato ampiamente nel tempo e nella consapevolezza tra bellezza e dolore. Comunemente ciò viene chiamato ‘Arte’ ma quello che posso dire è che mi sono solo messa in ascolto, comunicando con me stessa senza il pensiero. L’ho fatto tramite l’autoscatto, come se fosse un’auto terapia. In questo modo sono riuscita a vedere la mia ombra, a riconoscerla e quindi a pacificarla. L’autoscatto è uno, come uno sparo secco senza testimoni… quando mi fotografo non mi vedo, mi percepisco nello spazio, la mia mente smette di avere potere. Utilizzo il telecomando perché è lo strumento del qui e ora. Non credo che l’attrezzatura sia importante anche se oggi con i pixel è un disastro ed è, perciò, meglio scegliere un’attrezzatura di qualità semplicemente per una questione tecnica. Personalmente prediligo Canon in quanto amo i suoi toni caldi. Non credo che si possano fare ‘foto significative’ o ‘emozionanti’ se non ci si è mai messi in ascolto dell’invisibile. Le cose attorno a noi sono visibili ai nostri occhi grazie al vuoto che le circonda. Se non si fa esperienza del vuoto, riconoscendolo come elemento uguale al pieno tuttavia di differente fattezza, fotografare è difficile in generale. Se si fotografa una tigre non si è fatta una bella foto poiché la tigre è già bella, bisogna invece mettersi in connessione con lei, con i suoi vuoti e pieni e con ciò che ha attorno ed è, questa, tutta un’altra cosa. Penso inoltre che nella fotografia ogni elemento abbia la stessa importanza. Lo sfondo cioè ha la stessa importanza del soggetto poiché è quello che lo rende visibile”.

Se dovessi assegnare un titolo alle fasi più rilevanti della tua esistenza finora quale colore e quale canzone assoceresti a ciascun periodo? “Durante le fasi della mia esistenza mi sono abbandonata di fronte al fluire. Le ho avvertite, le fasi, come bianche metamorfosi e ho anche dedicato loro un progetto fotografico e video, che si chiama ‘White Metamorphosis’ – esposto dopo essere stato selezionato, nel 2017, nella più prestigiosa fiera italiana interamente dedicata alla fotografia e all’immagine in movimento ossia MIA Photo Fair Milano [www.chiaramazzocchi.com/whitemetamorphosis]. Io abbino alla vita ‘il suono’, ma quando non è solo un suono spesso è Franco Battiato”.
Cosa rappresenta per te l’Arte, la fotografia in particolare, la bellezza, il fascino e quale ritieni esserne il potere nonché principale pregio e valore? “L’arte mi catapulta direttamente al servizio della Luce e pertanto della creazione. Fluire, trasformare, divenire. Quando fotografo mi percepisco nello spazio come flusso energetico, vibrazione, canale. “Coloro che sono in sintonia con l’universo possono mutare il cuore degli uomini” è la frase, a mio avviso, dice tutto e non riesco ad aggiungere nient’altro”.

Quando ascolti, leggi, osservi un creativo cosa ti impressiona positivamente ed entusiasma maggiormente? “Di un creativo mi emoziona la sua capacità di incarnare la verità, la sua o quella dell’anima del mondo. La verità non richiede solo coraggio, richiede soprattutto dialogo con il proprio sé, con l’Universo (olos). Io so riconoscere quando davanti a me ho un artista o un creativo che ha avuto tale dialogo, poiché non si può barare su una cosa del genere. Quando mi emoziono è perché, per l’appunto, il dialogo c’è stato. Mi sono ispirata e tutt’ora mi ispiro allo slancio emotivo ed empatico della danzatrice visionaria Pina Bausch che nel 1973 creò il teatro danza, un mondo completo nei gesti, nella scenografia, nelle luci, nella fotografia della scena. Ho conosciuto personalmente Marina Abramović e ho fatto una performance con lei, ‘Embrace’, a Londra. Marina la seguo da circa trent’anni. L’ho vista per la prima volta da bambina, su una di quelle famose riviste che sfogliavo. Si trattava di un servizio su di lei, in un mensile d’arte, e rimasi letteralmente folgorata dalla potenza e dalla bellezza che riguardava il progetto che la rivista aveva attenzionato. Di Marina amo la sua costante ricerca, l’esplorazione e l’indagine sul qui e ora, sulla consapevolezza e sui limiti del corpo che poi sono una metafora di quelli della mente. L’altra mia figura di riferimento è di nuovo visionaria ed eclettica, David Lynch, per quanto riguarda l’approccio all’immagine. Ho avuto la fortuna di fare un workshop con lui dal titolo ‘Creatività e Trascendenza’. (…)”.

Qual è il primissimo scatto che ricordi di aver realizzato e quale la sensazione che provi nel fotografare? Hai l’impressione di essere più istintiva oppure razionale, concettuale, nel tuo scattare e nell’eventuale post-produzione? “Non è il primo scatto che ricordo, ma è il primo scatto consapevole (e quindi, per me, equivale al primo) e l’ho fatto a me stessa. È stato nel 2011, in una soffitta di Berlino, metropoli nella quale ho vissuto per sette anni. Quel giorno realizzai seicento autoscatti e intitolai la serie ‘Human Alienation’ ma di quei seicento scatti uno in particolare ha fatto il giro del mondo e ha avuto molte pubblicazioni, come per esempio su ‘Vogue’, ed è stato altresì esposto al Kunstsalon Berlin. Scelsi di stampare solo dieci foto di quelle seicento e tutte le altre le montai in stop-motion. Il video vinse diversi festival e menzioni speciali e, grazie a una casa distributrice di video arte contemporanea, ebbe moltissimi screening ovunque. Tutt’ora mi viene richiesto. Nella detta serie non ho utilizzato la post produzione. Sono scatti originali. Io fotografo ed edito solo d’istinto, con empatia e in base al momento in cui mi trovo. La sensazione che ho nel fotografare è quella di Vuoto-Silenzio, connessione, contatto con il mio sé”.
I ricordi ma altresì la sperimentazione e l’osare quanto sono fondamentali nel tuo vivere, per il tuo estro e in che misura veicolano o meno la tua artisticità? “L’esperienza del dolore e della bellezza sono stati fondamentali per me. Hanno dato vita alla sperimentazione e all’osare. L’esperire, il percepire, mi nutrono in ogni forma e mi veicolano verso il centro di me stessa e verso il centro del mondo. Creare ne è una conseguenza [dell’esperire]”.
Qual è il tuo pensiero a riguardo dei social (clicca qui link instagram) e con quale finalità ti ci approcci e li utilizzi? I social che incidenza hanno nella tua quotidianità e quale idea ti sei fatta del loro uso nei più differenti settori? “Utilizzo Instagram, Facebook, per divulgare il mio messaggio di Luce. Il mondo dei social network ha rivoluzionato il modo di fare comunicazione, sono ottimi mezzi se direzionati ad un uso mirato e intelligente, altrimenti restano soltanto contenitori di spazzatura. Sono contraria però alle applicazioni come TikTok, le trovo molto pericolose… vengono usate dagli adolescenti in una maniera deleteria e malsana”.

Prima di salutarci vuoi condividere con noi, magari in anteprima, quali sono i tuoi prossimi progetti? “I miei progetti operano sempre nella condizione dell’ascolto tra trascendenza e risveglio e mi portano immancabilmente alla divulgazione della Luce e della terapia tramite l’arte, ma anche tramite le discipline olistiche. La mia ricerca è volta al potenziamento individuale, non è rappresentazione ma è “stato di presenza” nel quale la mente si silenzia, smette di avere potere. Il mio intento è quello di stimolare verso un percorso di esplorazione animica, alchemica, primordiale, interiore e di accesso verso se stesso e verso la fonte, l’universo, tramite le frequenze e le vibrazioni cosmiche della natura e della natura dellʼuomo. Un percorso, il mio, che va oltre la tecnica fotografica e oltre lʼocchio fisico. Esso non è né analizzabile, né identificabile, poiché il “qui e ora” è uno stato che non può essere afferrato con la mente o compreso. Mi soffermo sul subconscio, laddove ci sono le nostre credenze. Esso governa la nostra mente al 95% quindi lo studio, lo esploro, ci comunico utilizzando anche la medianità. Cerco di dare forma a ciò che la manipolazione socio-culturale chiamata “educazione” ha reso irriconoscibile: l’essere umano”.