Tempo di lettura: 3 minuti – 571 parole
Recensione dell’esposizione in corso nella Capitale fino al 16 febbraio che celebra uno dei più rinomati ritrattisti del suo tempo, mostra incentrata sulla sua attività ritrattistica.

Nelle Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, il biografo Gian Pietro Bellori, emulo del Vasari, dedicava pagine encomiastiche a Carlo Maratti (Camerano, 1625 – Roma 1713), uno dei più rinomati ritrattisti del suo tempo, la cui fama travalicò ampiamente i confini italici.

Compulsando la faticosa prosa del Bellori leggiamo che il Maratti si formò alla scuola di Andrea Sacchi il quale apprese la lezione dei Carracci dal bolognese Francesco Albani; e che studiò soprattutto, con attenzione meticolosa, le opere di Raffaello definendolo princeps pictorum…” seguitò egli sempre il suo primo intento di eleggere ed imitare la bella natura, con la scelta degli ottimi maestri così dell’antica come dell’età moderna al qual fine più di ogni altro gli servì la guida di Raffaello”.
Maratti può essere considerato un artista eclettico e versatile, per la molteplicità delle tecniche di cui si avvalse, per la varietà dei temi prescelti, per la capacità di accogliere, trasfigurandole e conciliandole nella sua pittura, numerose, oltre che eterogenee, suggestioni estetiche.

In occasione dei quattrocento anni dalla nascita, Palazzo Barberini dedica al maestro marchigiano una mostra incentrata sulla sua produzione ritrattistica, “Carlo Maratti e il ritratto. Papi e principi del barocco romano” a cura di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò e Yuri Primarosa (fino al 16 febbraio). Una mostra che invita a riflettere sui motivi per cui la fama dell’artista – che non mancò di celebrare se stesso in svariati autoritratti – si sparse rapidamente in tutta Europa, complice la moda diffusa del Grand Tour.
Ci accostiamo al ritratto della figlia Faustina rappresentata nella arcadica veste di Allegoria della Pittura: la postura, d’impronta raffaellesca, della giovane donna si armonizza magistralmente con una contenuta carnalità barocca.

Ci sorprende la modernità del ritratto del teologo francescano irlandese Luke Wadding, intento alla scrittura dinanzi ad un’immagine della Vergine: il gesto della mano sollevata suggerisce l’istantanea di un movimento consueto, mentre l’espressione del volto sembra effondere un’atmosfera interiore.
Si direbbe un realismo caravaggesco affrancato dal gioco drammatico delle tensioni luministiche.
Un realismo che riscontriamo anche nel il ritratto di Papa Clemente IX: Maratti sa adempiere all’ufficio celebrativo suggerendo nel contempo un carattere, un temperamento, un sottile moto animico.

Non possiamo lasciare Palazzo Barberini prima di ammirare, in una sala poco distante, un quadro del Caravaggio proveniente da una collezione privata, esposto al pubblico per la prima volta (fino al 23 febbraio): si tratta del ritratto di monsignor Maffeo Barberini, uno dei pochissimi ritratti pervenutici ascritti al Merisi, essendo la maggior parte andati perduti.
Ci troviamo al cospetto di un tipico personaggio del teatro caravaggesco: intrisa di inquietudine, la figura sembra agitarsi, costretta tra quinte di tenebra, e voler smascherare, con il braccio proteso, l’illusoria bidimensionalità della tela.
