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Ultimi giorni per visitare la mostra a Palazzo Carpegna ì: trentatré opere fittamente disposte alla maniera delle antiche quadrerie, donazione del gallerista, mercante e mecenate torinese. Il nostro collaboratore Luigi Capano ha visitato la mostra e ce la racconta.

Distribuita su tre sale spartane, al pianterreno di Palazzo Carpegna a Roma, sede della prestigiosa Accademia di San Luca, intramontabile tempio della bellezza dove l’arte si intreccia inestricabilmente alla storia della Città Eterna, la donazione di Gian Enzo Sperone, gallerista, mercante e mecenate torinese, sarà in mostra fino al 7 giugno, prima di essere definitivamente annessa alla collezione permanente dell’Istituto.
Si tratta del più importante lascito giunto all’Accademia dal 1936, recita il comunicato stampa, e comprende trentatre opere fittamente disposte, alla maniera delle antiche quadrerie, quasi tutte risalenti ai secoli XVII e XVIII, che testimoniano un insospettato interesse per l’antico da parte di un gallerista noto soprattutto per aver promosso e divulgato in Italia e nel mondo, fin dagli anni sessanta, l’arte contemporanea di matrice statunitense, e sostenuto fattivamente tendenze estetiche emergenti, come l’Arte Povera di Germano Celant e la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva.

Quasi tutte, abbiamo detto, perché nella donazione sono incluse anche quattro opere più recenti: una classica natura morta di Filippo De Pisis, dalle patenti suggestioni cezanniane; un pastello di Francesco Paolo Michetti, raffigurante il divertente ritratto del comico Salvatore Petito, che fu celebre interprete teatrale di Pulcinella; un’installazione di Giulio Paolini, che omaggia fin dal titolo – “Crepuscolo degli idoli” – la sferzante iconoclastia nietzschiana; ed un grande disegno preparatorio di Carlo Maria Mariani, una sorta di allegoria dell’arte come si usava in antico, ma attualizzata agli anni ottanta secondo gli usati dettami postmoderni.
Tra i dipinti che più ci hanno persuaso, non possiamo non menzionare il Sant’Andrea Apostolo del Guercino: così austero e così drammatico ci appare quell’uomo avvinto alla croce ignea, simbolo, allo stesso tempo, della ineluttabile sofferenza terrena e della possibile interiore risalita.


Anche il Ritratto di gentiluomo di Rutilio Manetti ci invita a una sosta pensosa: si ha come l’impressione che il nobile personaggio così azzimato, sia stato immortalato appena qualche istante prima di fare il proprio ingresso sul proscenio del misterico teatro caravaggesco.
Ma chi più di tutti ci ha intrigato è il francese Jean Lemaire, un vedutista sodale di Poussin, specializzatosi nel genere ingegnoso del cosiddetto capriccio (di cui ammiriamo in mostra due esempi), un vocabolo scelto a indicare un paesaggio tra l’onirico e il metafisico, ideato combinando liberamente edifici, rovine, monumenti visti, ricordati, immaginati dall’artista, la cui fantasia visionaria dà corpo e colore ad una sorta di realtà aumentata ante litteram.
