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nonnoatipico ci racconta dell’amico argentino, di una tazza di mate, di un sogno, della prossima avventura in Africa, di un mezzo molto particolare e di un “gesto” di solidarietà.

Siamo seduti davanti alla officina di Pablo contemplando la moto che utilizzerò per il prossimo viaggio in Africa chiacchierando sulle varie migliorie da montare su questo mezzo molto ma molto particolare.
Da buon argentino mi ha offerto una tazza di mate e necessariamente la sua mente ritorna alla sua terra natia con una ondata di ricordi e sensazioni mai sopite…
Ad un certo punto, come se entrasse in un vortice di ricordi, mi dice: “ti voglio raccontare di un sogno che ho fatto questa notte; stranamente me lo ricordo perfettamente e considero questo di grande buon auspicio”.

Comincio dal rumore; un rumore indistinto che a mano a mano si fa sempre più intelleggibile: è
quello dell’officina di mio padre in Argentina: un respiro di ferro e polvere, la lima che canta, l’odore dolce e caldo dell’olio che si attacca alla pelle. Io bambino alzo la testa ogni volta che la scintilla blu accende il banco. Mio padre misura con il polpastrello, non con il calibro.
La distanza tra due denti è una sensazione. Le cose stanno insieme perché qualcuno le convince, non perché hanno il pezzo giusto.
Guardo le sue mani. Una guarnizione nasce da una camera d’aria tagliata con una tazza a mo’ di compasso. Un filtro è una bottiglia, cotone, garza, un filo di rame, una molla esce da una penna rotta, il trapano in morsa che diventa un tornio lento ed il truciolo cade come una spirale di fumo.        
In quel locale si ripara di tutto. Si baratta lavoro con tempo, un cuscinetto con un pranzo, un consiglio con un silenzio condiviso.  
Imparo che la povertà è un modo diverso di nominare l’abbondanza: non mancano le cose, manca solo il nome con cui chiamarle.
Adesso sto piegando una lamiera sottile per una moto piccola, leggera.
La costruisco per il viaggio di Nonno Atipico in Africa dove parteciperà alla Rust2Dakar 2025.  
La penso non come un oggetto, ma come un gesto: qualcosa che continua rivivendo il passato.
Scelgo viti comuni, passi di filettatura che trovi anche in un mercato di confine. Lascio spazio per aggiustare con una lattina, con una fascetta, con un nastro di gomma. Disegno fori che accolgono alternative, staffe che si piegano a mano, cavi che si ricrimpano con una pinza qualsiasi.
Niente elettronica che ci rende dipendenti.
Solo ciò che si può convincere con ingegno, calore e pazienza.
Mentre stringo l’ultimo bullone, rivedo l’officina di mio padre. La radio smontata che diventa alimentatore. L’altoparlante spogliato del cono, magnete utile per tenere una vite che non vuole restare. L’ago della macchina da cucire raddrizzato sul banco, la portiera del bus piegata come un gomito che ricorda la strada. Ogni riparazione era un atto d’amore non possessivo: fai nascere e poi lasci andare. Fiducia, presenza; ti prendi cura perché puoi, non perché ti appartiene.
Immagino questa piccola moto in Africa.
L’alba sgranata sulle piste, sabbia che scricchiola tra i denti come zucchero, il vento che asciuga il sudore dietro la nuca.  
Una vite che si allenta nel caldo, un suono che cambia, un battito fuori tempo.
Mi vedo accanto a Nonno Atipico, anche se non ci sono: ginocchia nella polvere, il serbatoio tiepido contro il fianco, il cuore che prende il ritmo del motore.  
Apro la borsa e trovo cose semplici: una camera d’aria che diventa guarnizione, una bottiglia che filtra, un pezzo di legno che fa da spessore, una graffetta che ha una nuova idea di sé.
La moto riprende fiato. Tu pure.

Il denaro è lontano come una città oltre l’orizzonte.; qui funzionano la manualità, l’invenzione, l’ascolto. In un villaggio qualcuno ti presta una morsa, un altro ti regala una lima con i denti stanchi, un ragazzo ti indica un meccanico che sa fare miracoli con un saldatore rattoppato.
Vi capite subito. Le mani parlano la stessa lingua che ho imparato da piccolo: ritmo, tatto, silenzio.
Stringo il casco tra le braccia prima di consegnarti la chiave. Non dico nulla: so che la porterai dove deve andare: tra dune, ferri caldi, notti leggere come teloni tesi.  
Questa moto non è perfetta, è vera… è fatta per essere toccata, capita, perdonata.   
È una memoria che viaggia: l’officina di mio padre che attraversa l’Atlantico e si siede sul tuo serbatoio e ti accompagna in Africa.
Quando parti, il rumore è lo stesso di allora. Una vibrazione bassa che dice “ci sono”.
Io resto sulla soglia ad ascoltare finché il metallo non diventa lontananza e sorrido.
L’ingegno compensa ciò che manca e la fiducia fa il resto. E in quel piccolo battito che svanisce nella polvere sento di nuovo la lezione: le cose davvero nostre sono quelle che sappiamo lasciare andare.
Rimane in silenzio. Non so quanto fosse un sogno o un augurio oppure una condivisione ma sono certo di avere vissuto un momento bellissimo e coinvolgente che mi ha fatto sentire amico, fratello, complice!
Ora non ci resta che finire il lavoro che avrà la sua consacrazione con la partenza il 27 di dicembre alla volta della Guinea Bissau dove donerò questa moto ad una missione unitamente a medicinali ed a beni necessari.
Se a qualcuno interessa aiutarci in questa operazione, allego il link della raccolta fondi che abbiamo creato; potrebbe essere un modo di salire in moto con me!    
https://gofund.me/13d6a0ea2