Oggi sede dell’anagrafe del Comune di Torino è stato un luogo di grande sofferenza: Regio Manicomio.
Non distante dal Rondò d’la furca e dal Santuario della Consolata c’è via Carlo Ignazio Giulio.
Anche se ora l’ingresso è in via della Consolata i torinesi conoscono la costruzione che ha la sua entrata principale in via Carlo Ignazio Giulio, per molti semplicemente via Giulio, perché è la sede dell’anagrafe.
Però la sua prima funzione fu quella del Regio Manicomio.

La costruzione del Regio Manicomio avviene fra il 1828 e il 1836, con frequenti interruzioni per carenza di fondi, nella sede di via Giulio (che la voce pubblica prende a indicare come “l’albergo dei due Pini“), per l’inadeguatezza della precedente struttura (Ospedale dei Pazzerelli) e per lo svilupparsi di una nuova attenzione medica, sociale e politica nei confronti della questione del controllo dei comportamenti devianti.
Scriveva il Presidente del Regio Manicomio: “Il luogo non poteva essere meglio scelto per trovarsi il medesimo sufficientemente appartato dalla Città per non riuscire d’incomodo al vicinato, ben esposto e ventilato, con prospetto di campagna, abbondanza d’acqua e soprattutto ampiezza di abitazione e di sito coperto cotanto necessario per la classificazione e separazione delle principali malattie intellettuali, nonché per assicurare in quantunque tempo e stagione il passeggio dei ricoverati”.
Un fatto rilevante nell’ambito del dibattito allora in atto circa l’ubicazione delle nuove strutture, l’architettura manicomiale, l’ergoterapia come strumento di “ravvedimento”, il miglioramento delle condizioni di vita dei folli “incurabili” (innocui o no), ecc.
L’edificio, progettato dall’architetto Giuseppe Talucchi (1782-1863), si caratterizza per la sua disposizione in lunghezza: il nucleo centrale, destinato a spazi di servizio, divideva due padiglioni simmetrici corrispondenti alla divisione per sesso dei ricoverati.

La dislocazione delle stanze rendeva possibile la separazione per tipo di disturbo e tra ospiti paganti e non e la distribuzione prevedeva locali destinati al lavoro dei reclusi.
Rispetto all’edificio originario, non esiste più l’imponente muro di recinzione ed è stata aggiunta, a metà Ottocento, la struttura semicircolare del lato sud, su progetto dell’architetto Barnaba Panizza (1806-1895). Perché ho pensato di inserirlo tra i luoghi “neri” di Torino?
La spiegazione sta nel fatto che questo è stato per anni un luogo dove era ben presente la sofferenza delle persone e, ancora oggi, una persona sensibile può percepire vibrazioni negative.
Poi in quel luogo veniva “internate alcune delle donne considerate “pazze” ma che invece risultavano “abbandonate” al Regio Manicomio per estrometterle da vicende familiari, come ad esempio complicate divisioni ereditarie.
E chi veniva internato “non pazzo” in quel luogo, alla fine, lo diventava sul serio a seguito del trattamento e dell’isolamento.
Ora è sede dell’anagrafe del Comune però, come scrivevo sopra, si percepisce ancora la grande energia negativa che permea quei muri e quegli spazi, l’energia negativa sprigionata, appunto, dalla sofferenze delle persone internate.
E qualche anno fa ho saputo che, casualmente, l’archivio funebre è negli spazi dove venivano internate proprio le donne fatte passare per pazze.
A pensare tutto ciò, ancora oggi, passandoci davanti, se si è consapevole del passato dell’edificio, un piccolo brivido percorre il corpo di chi transita.
A me capita.
La foto di copertina è di Giusy Virgilio

Grazie per questo articolo. Mi porta indietro di parecchi anni, quando venne chiuso, e tutti gli accessi murati. Mi sono laureato in architettura nel 1979, e ho eseguito i primi sopralluoghi con un mio compagno di università, nel 1976, circa. Il piano interrato era completamente buio, e pur non essendo gay, ci siamo automaticamente dati la mano per farci forza. E’ indescrivibile quello che si percepiva nell’aria. Le celle aperte con anzi di tutto. Un’ infermeria con armadi in legno murati e per terra , moltitudine di oggetti rotti. Io ho ancora una poesia che ho strappato da un’agenda trovata in una cella. Le scale avevano inferriate alte per evitare che qualcuno si buttasse nella tromba. Fatto curioso, risultò dopo parecchie ricerche che il passo degli archi a piano terreno è di 1 trabucco piemontese, unità di misura usata all’epoca, che variava di poco da città a città( 1 trabucco=3,085 mt.). Potrei andare avanti per pagine e pagine a ricordare quell’esperienza, ma chiudo qui ringraziandola ancora. Un caro saluto.
Enzo Manfè
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Buongiorno Enzo, grazie per il commento. Se vuole può ricordare l’esperienza con un articolo che andrei a pubblicare molto volentieri.
Se ne ha voglia questa la mail
fabriziocapra.otticheparallele@gmail.com
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