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Nella Capitale sono esposte per la prima volta cinque pale d’altare e una piccola tempera a tema religioso realizzate tra il XV e il XVII secolo, opere di Tiziano, Lotto, Crivelli e Guercino. La mostra sarà visitabile fino al 30 marzo 2025.

Per dare artisticamente l’abbrivio al Giubileo imminente, i Musei Capitolini hanno da pochi giorni inaugurato, nelle sale del Palazzo dei Conservatori, una piccola ma pregiatissima mostra: “Tiziano, Lotto, Crivelli e Guercino, Capolavori della Pinacoteca di Ancona”, a cura di Luigi Gallo e di Ilaria Miarelli Mariani (fino al 30 marzo 2025).
In tutto sei dipinti a tema religioso – cinque pale d’altare e una piccola tempera, realizzate tra il XV e il XVII secolo – provenienti dalla Pinacoteca Podesti di Ancona ed esposti oggi a Roma per la prima volta.

È, questa, anche un’utile occasione per rimarcare l’importanza della città dorica quale ambita committente degli artisti più rinomati di quei secoli; oltre che per ricordare, purtroppo, il feroce bombardamento del 1943 ad opera dell’aviazione statunitense che non risparmiò neanche la pinacoteca, la cui sede fu infatti devastata.

Ma le opere più importanti si salvarono, grazie alla lungimiranza e alla previdenza del soprintendente alle Gallerie delle Marche, Pasquale Rotondi, che le aveva già trasferite altrove, sottraendole così alla inevitabile distruzione.
E, tra queste opere miracolate, si annoverano i sei dipinti protagonisti della presente mostra: la Pala Gozzi di Tiziano Vecellio (1520), un’Immacolata Concezione del Guercino (1656), la Pala dell’Alabarda di Lorenzo Lotto (1538), una Madonna col Bambino di Carlo Crivelli (1480 ca.), la Circoncisione di Gesù Bambino di Olivuccio da Ciccarello (tra fine XIV e inizio XV sec.), e una Crocifissione anch’essa ascritta al Vecellio (1556 ca.).

Tra i quali, gli studiosi hanno dato rilievo preminente alla Pala d’altare commissionata dal mercante Alvise Gozzi al giovane Tiziano che, nel realizzarla, aveva guardato, con devozione di allievo, alla Madonna di Foligno di Raffaello.
Ma nel pittore veneto, l’armonia della composizione e la postura metafisica degli attori, quintessenziata dal genio raffaelliano, si china al realismo dei gesti, all’umanissima emotività delle posture, quasi a ratificare, a mezzo del veicolo letificant e attrattivo della bellezza, la parusia dell’invisibile nel reame del visibile.

È inevitabile il raffronto con la vicina Crocifissione, un’opera della maturità commissionata dal mercante Paolo Cornovi della Vecchia e che denuncia, a ben intendere, un patente viraggio di sguardo: la sofferenza dell’ora, così variamente incarnata dal gruppo ai piedi della croce, è come compresa da un’atmosfera cromatica astratta, che incombe dal fondale e si avvia ad invadere la scena in primo piano, trasferendo la percezione ottica nell’alvo di un partecipe tormento interiore.
Tutt’altra sintassi esibisce la tempera tardo-gotica di Crivelli, una scena sacra ornata e preziosa nella quale il pittore veneziano si è più volte cimentato, realizzata con perizia incisoria: il manto sontuoso della Vergine è dipinto con autentiche foglie d’oro e decorato con perle e rubini; un drappo e una balaustra lapidea isolano la santa Apparizione dallo spazio e dal tempo, allusi dal paesaggio naturale sullo sfondo, primaverile a sinistra e autunnale a destra.

L’opera, densa di simboli e metafore bibliche e cristologiche è figlia di quell’estetica bizantina, distante anni luce dal pauperismo francescano, che effonde dagli ori e dai preziosi le ineffabili ipostasi del divino.
Così come risente della maniera tardo-gotica la Circoncisione ascritta al pittore marchigiano Olivuccio da Ciccarello: il tempio a tre navate, riccamente guarnito, accoglie la narrazione evangelica, nella quale ci sorprende la buffa, realistica, disarmata, espressione del bambino, immortalata nel momento topico.
Del Guercino ammiriamo una grande pala della Vergine Immacolata, ad uso devozionale, che denuncia la perizia del pittore emiliano nell’impiego simbolico della luce, presagio e sigillo delle epifanie del sacro.
Da ultimo menzioniamo l’olio di Lorenzo Lotto, la cosiddetta Pala dell’Alabarda: l’intera scena è agitata da un’inquietudine, da una tribolazione che contagia la retina del riguardante turbandone e quasi vanificandone l’atto contemplativo.



