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Recensione della mostra dedicata al pittore norvegese visitabile fino al 2 giugno nella Capitale, esposizione curata da Patricia G. Berman e organizzata da Arthemisia. Oltre cento quadri, eccezionalmente prestati dal Munchmuseet di Oslo.

Edvard Munch, Disperazione, 1894, olio su tela, 92×73 cm, Photo © Munchmuseet

Come Bertel Thorwaldsen ed Henrik Ibsen, anche Edvard Munch (1863-1944) soggiornò per qualche tempo a Roma ed anch’egli, come i suoi illustri predecessori, fu tra i frequentatori di un rinomato Circolo Scandinavo che ebbe la sede originaria nel Palazzo Correa, nei pressi del Mausoleo di Augusto. Il pittore norvegese, divisivo protagonista della Secessione Berlinese sullo scorcio del XIX secolo, ritorna oggi nuovamente a Roma con una grande mostra antologica (visitabile fino al 2 giugno), curata da Patricia G. Berman e organizzata da Arthemisia nello storico Palazzo Bonaparte, che fu residenza di Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone. Oltre cento quadri, eccezionalmente prestati dal Munchmuseet di Oslo, ne riassumono l’intero percorso artistico che prese l’abbrivio dalla visione naturalistica, figlia del positivismo allignante un po’ ovunque nell’Europa di quegli anni, per poi orientarsi verso l’indagine avanguardistica dei processi percettivi e l’espressione panica dei loro esiti formali. “La grandiosa solennità delle tenebre regnava in alto ed intorno; tutto taceva… Ma lassù, sotto la volta celeste, si spandeva l’eterna canzone, il suono assiduo, senza note, voce cupa e lamento del mistero. E così a lungo io porsi l’orecchio a quel profondo misterioso sospiro, che alla fine un tremito mi prese”. Questo brano tratto da un romanzo di Knut Hamsun, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1920,ci trasmette il senso ed il clima della poetica di Edvard Munch. I due furono amici e si trovarono accomunati da una  forte tensione verso le cose nascoste, dalla persuasione che la realtà sensibile sottenda una rete di forze invisibili dalle quali, in qualche misura, viene plasmata.

Molti fermenti culturali alimentavano questo atteggiamento filosofico-esistenziale: la psicologia sperimentale con le sue ricerche sui meccanismi della percezione ottica, la nascente psicanalisi, la fisica della materia che sempre più si addentrava nell’infinitamente piccolo, ma anche la diffusione dello spiritismo di Allan Kardec e della teosofia di Helena Blavatsky, e la dottrina occultistica del filosofo e mistico svedese Emanuel Swedenborg. Ci soffermiamo per qualche istante sull’olio titolato “Disperazione”: qui la figura in primo piano  – come nel celeberrimo “Urlo”, del quale è presente in mostra una litografia – appare aurata della propria pervasiva atmosfera psichica, oggettivata da cromìe irrequiete e incombenti che compenetrano, assimilandola, la realtà circostante. Si potrebbe chiosare, ermeticamente: dal microcosmo al macrocosmo, senza soluzione di continuità.

Una fatale incertezza epistemologica sulla veridicità della conoscenza sensibile effonde, nella gran parte della produzione munchiana, quel sentimento tragico dell’esistenza che ha segnato profondamente la Weltanschauung di più generazioni di intellettuali e di artisti. Ci vien da pensare che Munch avesse cercato di lenire la propria tribolazione interiore ricorrendo al rimedio spagirico della bellezza: è questo forse, per molti esploratori del senso riposto delle cose, il movente più intimo del fare arte.