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nonnoatipico torna non per raccontarci un’esperienza di viaggio ma una di “gastronomia”, che poi è un viaggio tra i sapori, trasformando attraverso il suo inconfondibile stile il racconto di un ristorante in una esperienza vissuta e da vivere.

A lungo in Italia abbiamo percepito l’amaro come una regola severa: “amaro come la vita” ci dicevano i nonni e nelle cucine la nota amara restava al margine: erba da correggere, bruciatura da evitare, fondo di tazza che si stringe in gola.
L’amaro apparteneva ai rimedi: genziana, rabarbaro, china, digestivi a chiudere il pasto; un brivido di rigore dopo l’abbondanza.
Negli orti il radicchio si lasciava addolcire dal gelo; in sala, l’insalata “troppo amara” tornava spesso indietro. Il gusto che ammonisce, il gesto che trattiene.
Poi, a Porto San Giorgio, in provincia di Fermo, una porta si apre su Retroscena. Dentro ti attende lo chef Richard Abou Zaki che insieme alla sua impareggiabile brigata rovescia la prospettiva: l’amaro non chiude bensì apre; non punisce, pulisce e riorienta il palato, come una finestra socchiusa che fa entrare aria nuova in una stanza calda.

Il suo menù non urla… compone.
L’amaro entra come un fil di voce che mette a fuoco. In un piatto di seppia e agrumi la scorza di pompelmo non fa scena ma ordine; toglie il velo al dolce naturale del mollusco e lascia che la sapidità si mostri senza peso.
In un’entrata di carciofo, foglia, cuore, ombra, l’amaro si distende su tre piani: prima una carezza vegetale, poi la vibrazione del ferro, infine il colpo netto che asciuga la lingua e la prepara.
Il dolce non è più consolazione, ma accordo; l’acido non graffia, incide e l’umami, quel quinto respiro di profondità, si lega proprio grazie a questo bordo scuro e lucente.
In sala si capisce presto: qui l’amaro è di prammatica. È la congiunzione che unisce e non il punto che ferma.
Abou Zaki lo dosa come si fa con la luce in fotografia spostando un pannello, schermando un riflesso, cercando il contrasto giusto.
C’è una storia lunga, naturalmente, dietro questo cambio di sguardo. La nostra lingua ha trattato l’amaro come sinonimo di rancore, rimpianto, sconfitta. Eppure, la cucina italiana ha sempre custodito piccole eccezioni felici: il carciofo alla giudia che schiocca, la puntarella che sveglia l’acciuga, il Campari che tiene dritto l’aperitivo tra sole e sale.
Retroscena raccoglie quelle eccezioni e le porta al centro, come se dicesse: guardate meglio!
L’amaro non è l’ospite difficile ma è architetto silenzioso dell’equilibrio.
Un piatto racconta bene questa idea: spaghetti, burro affumicato e polvere di luppolo. Tre momenti: il grasso accoglie, il fumo avvolge, l’amaro del luppolo secco ed elegante taglia il cerchio. Il morso resta lungo ma leggero.
In un attimo la mappa del palato si ridisegna: prima una morbidezza, subito dopo un varco; si esce dal piatto con più fame di chiarità che di zucchero.
Qui l’amaro è soprattutto una promessa di precisione. Nelle verdure di costa, biete, cicorie, catalogne, diventa nerbo e non castigo. Nel cioccolato senza zucchero è ritmo, e non austerità.
Nel fondo di un brodo tostata la nota amara tiene insieme il racconto come una cucitura invisibile.
Anche i cocktail di apertura lavorano su questa sottrazione felice: chinotti e agrumi non per velare, ma per far respirare. Arrivi pensando alla resa: esci con una definizione nuova di piacere.
C’è molto corpo in questa cucina, e allo stesso tempo molta leggerezza. Il servizio si muove piano, ti lascia ascoltare il piatto.
L’amaro diventa un modo di stare: spalle rilassate, occhi aperti, respiro lungo. Nessun compiacimento, nessuna posa!
L’idea è semplice e radicale: il gusto che abbiamo imparato a temere è proprio quello che ci restituisce misura. Ci ricorda che l’eccesso stanca e che l’armonia si ottiene per differenza e che il palato, come la memoria, ha bisogno di una soglia per ricordare.
Se la cucina è linguaggio, Richard Abou Zaki usa l’amaro come un segno di punteggiatura che cambia il senso della frase: non il punto finale, ma la virgola che fa spazio.
Così Retroscena non racconta una provocazione, ma un ritorno alla verità delle cose quando sono ripulite dal superfluo: un carciofo sa di campo e minerale; una scorza sa di sole; un luppolo sa di erba e resina. Tutto il resto è servizio alla chiarezza.

E allora l’amaro non è più il contrario del dolce; è il suo compagno e complice.
È quella mano che trattiene un secondo, perché l’incontro sia pieno. Nel piatto e fuori, suggerisce un’etica sottile: togliere, limare, lasciare che gli elementi si parlino senza urlare.
A Porto San Giorgio, in questo ristorante dal nome giusto, l’amaro non chiude ma apre la scena; e dopo, quando ti alzi e senti la bocca pulita e capisci che non hai “sopportato” un gusto difficile ma hai trovato una bussola.
È questo il cambiamento storico che vale la pena provare: l’amaro, da sospetto, è diventato strumento; da castigo a grammatica.
Ed a Retroscena, questo piccolo spostamento diventa evidente.
Ti lascia con una fame nuova: di verità gentile, di sapori che respirano, di una cucina capace di dire “basta così” con eleganza.
Qui l’amaro ha un volto limpido. E sorride!