Eccoci con lo speciale dedicato alle mostre. Nel Principato di Lucedio (Trino – VC) la mostra “Quasi nessuno”. La Galleria z2o project propone “Come il vento nelle case”. “Dreaming the End” è la mostra in corso a Roma alla Fondazione Memmo.
“MATILDE CASSANI. QUASI NESSUNO”
a cura di Paola Nicolin
organizzazione Aptitudeforthearts
fino al 30 novembre 2023
Principato di Lucedio
Trino (VC)
Tutti i giorni
Ingresso gratuito
https://aptitudeforthearts.com/it/aptitude-it/

In occasione della sua seconda edizione, l’associazione Aptitudeforthearts è lieta di presentare il nuovo progetto “Quasi Nessuno” di Matilde Cassani, designer e artista la cui ricerca da anni opera al confine tra architettura, installazioni e performance. Nata come iniziativa di arte sul territorio dedicata alla valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale del Vercellese, Aptitudeforthearts conferma con questo secondo episodio la volontà di sostenere la ricerca artistica femminile invitando artiste di diversa generazione e provenienza a riflettere sul paesaggio della risaia e a immaginare un intervento liberamente ispirato alle sue storie. Per la stagione 2023 l’invito è stato esplicitamente pensato in relazione alla possibilità di agire nel contesto naturale, entro un circondario ampio e generoso che abbracciasse la vastità della risaia, oltre il confine di uno specifico manufatto architettonico. “Quasi Nessuno” è la risposta di Matilde Cassani il cui sguardo indaga la risaia come fenomeno socio-antropologico prima che estetico. L’artista e designer, nel corso delle ricerche svolte in situ, si è soffermata infatti sulla progressiva rarefazione della figura umana nel paesaggio agricolo, sempre meno abitato da corpi e sempre più attraversato da racconti, storie di comunità scomparse, voci di fantasmi che echeggiano dietro le colline, il comparire e lo scomparire dell’acqua sempre meno abbondante, il nidificare degli aironi che segnano il passaggio delle stagioni. Chi oltre a questa fauna abita questi luoghi? Quasi Nessuno. Il tema del progetto si snoda allora attorno a questa semplice domanda che porta Matilde Cassani a discutere su quello che lei stessa definisce “il miraggio di un uomo”, la sua presenza isolata tra gli animali, il suo essere un animale tra i tanti, fragile come gli altri che subiscono gli effetti del cambiamento climatico dove sovrana regna la signora Siccità. Cassani trasforma la risaia in un universo fiabesco, popolato di figure visibili, echi di chi non c’è più, comparse sfuggenti che si intravedono all’imbrunire. Qui ha infatti sognato di veder comparire qua e là una compagnia di spaventapasseri. Personaggio magico, favolistico non privo di una dimensione legata al fantasmagorico, lo spaventapasseri è una immagine che unisce l’antico con il contemporaneo, figura sacra e insieme fantoccio del presente, metafora concreta della idea di efficienza della natura, figura diversa, vestita di stracci e stranezza che accampa la sua bizzarria entro una ricchissima letteratura legata soprattutto alle innumerevoli traduzioni e infiniti adattamenti del celebre romanzo di L. Frank Baum, Il meraviglioso mago di Oz, pubblicato per la prima volta a Chicago nel 1900. Quasi uomo (o quasi donna?), pupazzo (o bambola?) al confine tra realismo e immaginazione, politicamente interpretato come il simbolo della classe agricola, lo spaventapasseri è un dispositivo visivo, un oggetto pauroso, detto anche spauracchio, tradizionalmente un manichino da vestire in modo “strano”, “diverso” e comunque capace di indurre alla fuga il volatile attraverso indumenti bizzarri. Anche solo da questi brevi accenni sembra chiaro quanto lo spaventapasseri incarni la dimensione della paura, della diversità, della problematica relazione che si instaura tra essere umano e essere animale all’interno di un paesaggio naturale dove il primo coltiva la terra e il secondo se ne ciba e viceversa. Lo spaventapasseri in questo senso interpreta in chiave post umana il tema della cura del territorio, abbracciandone ogni possibile traduzione nel campo del vivente. Isolato e spesso in silenzio questo “vivente”, non più solo donna né solo uomo ma diventato comunità, si tiene compagnia nel paesaggio lunare della risaia che, secolo dopo secolo, ha assistito stagionalmente alla trasformazione del sistema agricolo. Il progetto immaginato dall’artista per queste ragioni abbraccia un tempo ampio, dove poter monitorare il cambio delle stagioni osservando il circondario della Abbazia di Lucedio e in modo particolare le aree agricole comprese tra i terreni del Principato di Lucedio, che lo ospitano. Il progetto si avvale della collaborazione con il fotografo Delfino Sisto Legnani che da anni collabora con Matilde Cassani e che anche in questo caso si misurerà con l’artista nella indagine del contesto. “Quasi nessuno” è stato realizzato con il generoso sostegno di Principato di Lucedio srl e con la collaborazione di Botto Giuseppe e Figli S.p.A e con la collaborazione di Set-up e Studio Matilde Cassani. Si ringrazia il Politecnico di Architettura di Milano, Progetto di micro stage Corso di Arte Contemporanea e Spazi, Professoresse Anna Mazzanti e Matilde Marzotto Caotorta, LCA Studio Legale, Borgo Ramezzana Country House, Efebia srl, Manfredi Perrone e Paolo Schenone. Si ringraziano Luisa Gervasio, Andreina e Paolo Carrà, Luca ed Helen Brondelli di Brondello per l’amichevole partecipazione al video di narrazione.
“GUGLIELMO MAGGINI. COME IL VENTO NELLE CASE”
fino al 23 giugno 2023
z2o project
Via Baccio Pontelli, 16 – Roma
orari: aperto solo su appuntamento
biglietto: ingresso libero
https://www.z2ogalleria.it/

z2o Sara Zanin presenta “Come il vento nelle case”, prima personale di Guglielmo Maggini all’interno degli spazi di z2o project. “Dobbiamo essere martelli che spaccano i vetri per far entrare il vento nelle case” (dal catalogo della retrospettiva del 2011 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, a cura di Angelandreina Rorro): a questa dichiarazione pronunciata da Giacinto Cerone si lega indissolubilmente il titolo scelto per la prima personale di Guglielmo Maggini presso z2o project, “Come il vento nelle case”. Essere martelli che spaccano i vetri lasciando una traccia tangibile del proprio passaggio, diremmo noi, senza alcun timore di far entrare il vento nelle case è una frase in grado di restituire, attraverso una sintesi puntuale e radicale, la portata dello sconfinamento attraverso lo spazio. Come il vento nelle case indica l’istante successivo all’abbattimento dei vetri, il momento eterno e impercettibile in cui la brezza passa attraverso le finestre, gonfiando i polmoni della casa. Il luogo che ospita la mostra di Maggini è anche questo: uno spazio domestico in cui si condensano le memorie mai vissute di ciò che un tempo si è stati/di ciò che non si è più. Non è forse un caso che l’immagine scelta dall’artista a guida della mostra – un’immagine personale sì, ma al contempo estendibile a una percezione più ampia, quando non apertamente universale - raccolga, in nuce, molti degli elementi che, per traslato, sono rintracciabili nel corpus di lavori prodotti appositamente. Il femminile è sùbito avvertito come elemento di congiunzione tra il sé e l’altro, come ponte di continuità tra dentro e fuori, domestico e pubblico, come pura energia in divenire in grado di intercettare il nostro sguardo di fanciulli. Allo stesso tempo, il vento come movimento di masse d’aria atmosferica è l’elemento naturale generatore, ciò che garantisce lo sviluppo, alla stregua di metabolismi indipendenti, delle particelle elementari di cui l’argilla, le resine e le schiume come il memory foam – materiali di elezione nella nuova serie di opere prodotte per la mostra - si compongono, avviando così quella trasformazione di stato che trova ampio margine concettuale nella ricerca di Maggini. Nell’insieme di opere presentate – sculture in ceramica e resine, installazioni in memory foam – Maggini arriva a una sintesi della propria ricerca mettendo a punto non soltanto uno studio dei materiali a lui particolarmente cari ma anche evidenziando il potenziale immaginifico della scultura attraverso una dialettica tra alto e basso che dalle suggestioni dell’ornato classico con le stilizzazioni di motivi naturalistici, passa per la storia del Modernismo e sconfina negli anni Novanta capitombolando in un film di John Waters che fa il verso al Minimalismo e all’oggetto de-funzionalizzato. Il referente qui diviene importante soltanto a uno stadio iniziale; la creazione di uno spazio organico attraverso forme e volumi, pieni e vuoti, presenze e assenze predomina nell’articolazione di una dinamica visiva in piena trasformazione. È così per esempio che nella serie di sculture in ceramica e resina Tentativo di forma la giustapposizione degli elementi formali avviene attraverso un principio di sottrazione che genera anfratti e cavità, curve sinuose e avvallamenti, conformando la scultura come un elemento unico in cui colore e modellato divengono un tutto organico. Nell’impiego di ceramica e resina, affini e al contempo antitetici, Maggini sperimenta una ibridazione tra materiali dimostrando ancora una volta la centralità del principio di trasformazione: da fossile organico a prodotto organico sintetico, il passaggio di stato da liquido a solido si rivela quasi come un passaggio di consegne di madre in figlio. La resina fa da elemento di congiunzione per amalgamarsi alla ceramica, divenendo un tutt’uno con essa. Rogo di ricordi arancioni è una scultura che prende il piano della parete componendosi di tre parti modulabili: il criterio che sottende alla possibilità di modulare la scultura e con essa la parete abbandona decisamente la modularità geometrica per trasformarla in un fiammeggiante tripudio di lembi aperti. A questo punto emerge un’altra componente centrale nella ricerca di Maggini che ha a che fare con la visceralità e il corpo – un corpo in frammenti, che rivela il proprio interno quasi a voler uscire dalle viscere per rendersi completamente palese – rendendo spesso le sculture e le installazioni dei surrogati, delle presenze perturbanti in cui protuberanze ed escrescenze mimano componenti sinuose lasciandoci increduli davanti alla possibilità di testare il confine ambiguo tra duro e morbido, naturale e artificiale, mostruoso e accattivante. La serie dei Pillow Talks e dei Volumi – soffici installazioni a parete e ambientali – riarticolano così l’oggetto quadro e il volume dando loro un senso rinnovato. Il colore - guadagnando una palette che spazia dai rosa cipria al beige, passando per il giallo senape, il verde e il blu elettrico - arriva quindi a giocare il ruolo centrale di membrana permeabile, epidermide pura che tradisce, però, la sua natura artificiale e, per questo stesso motivo, attrattiva e ad un tempo repulsiva. Quello di Maggini è un linguaggio massimizzato che fa dello spazio un corpo vivo sottoposto alla trasmutazione delle forme, una casa dei ricordi da riscrivere e che ancora devono avvenire. (Angelica Gatto)
“SIN WAI KIN. DREAMING THE END”
fino al 29 ottobre 2023
a cura di Alessio Antoniolli
Fondazione Memmo
Via Fontanella Borghese, 56/b – Roma
orario: da lunedì a domenica 11/18 (martedì chiuso)
biglietti: ingresso libero

Fondazione Memmo presenta “Dreaming the End (Sognando la fine)”, prima mostra personale in Italia di Sin Wai Kin (Toronto, Canada, 1991), in programma fino a domenica 29 ottobre 2023. Punto cardine del progetto è la nuova opera video da cui prende nome la mostra, “Dreaming the End” interamente girata a Roma. La mostra, a cura di Alessio Antoniolli, costituisce un ulteriore capitolo della ricerca di Sin Wai Kin, che riflette sull’oggettivazione del corpo e la cultura che lo regola attraverso la pratica dello storytelling, ponendo così in discussione i processi normativi che regolano le categorie identitarie e una coscienza del sé fondata sul binarismo. Costantemente in bilico tra realtà e dimensione onirica, la poetica di Sin Wai Kin è il manifesto di una complessità che rifugge categorie e mezzi espressivi: video, performance, installazioni sono i linguaggi utilizzati per dar vita a opere che mescolano riferimenti pop ed esperienze personali, lasciando emergere un sentimento indefinibile, sospeso tra tenerezza e malinconia, ironia e dramma, familiarità e alienazione. Fulcro dell’esposizione è il video Dreaming the End: una storia che si muove tra il registro narrativo e quello reale, giocando con i tempi, gli spazi, i luoghi e riferimenti, così da rendere tutto allo stesso tempo familiare e sconosciuto. Ossessioni e contraddizioni sono al centro del film, un viaggio a metà tra sogno e visioni opprimenti compiuto da una serie di figure enigmatiche che si incrociano nei diversi scenari immaginati da Sin Wai Kin. L’approccio trasversale di diversi generi cinematografici (thriller, noir, fantasy…), con incursioni nella moda e altri ambiti della cultura popolare, contribuisce al senso di spaesamento di Dreaming the End, che offre allo spettatore un’esperienza in cui i punti di riferimento vengono continuamente messi in discussione e ribaltati. È attraverso questa storia – un pastiche di generi, stili, e coordinate spazio-temporali – che il film pone una domanda: dove finisce l’autenticità e comincia la performance? Chi decide cosa sia fantasia o realtà? Per Sin Wai Kin la possibilità di cambiamento è fondamentale: anche quest’opera è un invito ad adottare una coscienza non-binaria, per sciogliere la rigidità di certi schemi e lasciare che le nostre esperienze ci facciano evolvere. Caratterizzati da una narrazione fortemente improntata alla fiction, nei progetti artistici di Sin Wai Kin si assiste a uno sdoppiamento, talvolta una vera e propria moltiplicazione dei personaggi in scena, quasi sempre interpretati dall’artista. È il caso di Dreaming the End, produzione inedita interamente concepita in occasione della mostra alla Fondazione Memmo, dove i personaggi si incontrano e si muovono attraverso lo spazio narrativo, scambiandosi e alternandosi l’uno con l’altro. Questo processo ciclico fa sì che queste figure debbano continuamente riscoprirsi, prendere coscienza di sé in ambienti ed esperienze che li vedono coinvolti in un perpetuo flusso: “I am perceiving myself shaping the words, but I am also perceiving the words shaping me as I speak them” (estratto dal testo del film). La fluidità dei corpi e delle prospettive è evidenziata dalla scelta di mostrare il video in loop, così da creare una storia che si racconta e si rinnova attraverso la ripetizione, evolvendosi e cambiando a seconda di chi la narra e chi l’ascolta: “Everytime I hear the story it changes a little. Everytime the story is embodied it changes a little…” (estratto dal testo del film). La forte connotazione psicologica dei personaggi è alimentata dai luoghi che fanno da sfondo a Dreaming the End. Interamente girato a Roma, il film può contare su ambientazioni di grande fascino, tra gli interni di Palazzo Ruspoli, i giardini di Villa Medici e gli spazi del Palazzo della Civiltà Italiana: contesti iconici che amplificano il senso di meraviglia dell’opera di Sin Wai Kin, creando un inedito ponte tra la storia millenaria di Roma e l’enfasi dell’artista sul potere della narrazione. Il corpo di Sin Wai Kin, così come quello della città, sono in continua evoluzione, capaci di unire storie passate e potenziali futuri, attraversando stati e fasi differenti. Oltre al film, gli spazi della Fondazione Memmo saranno popolati dai personaggi di Dreaming the End e dai loro stadi di trasformazione. Busti e parrucche saranno collocati in spazi diversi, ma in dialogo l’uno con l’altro, così da creare un continuo scambio; questi elementi saranno accompagnati da una serie di salviette struccanti con le tracce del make-up dei diversi personaggi interpretati da Sin Wai Kin: si tratta a tutti gli effetti di “sindoni” che diventano dipinti contenenti paesaggi e cosmologie di un’identità che cambia e che lascia segni di un processo senza fine. Dreaming the End non è soltanto la prima esperienza espositiva di Sin Wai Kin in Italia, ma anche il debutto italiano del curatore Alessio Antoniolli che con questa mostra inaugura un nuovo corso per la Fondazione. Il progetto di Sin Wai Kin vedrà anche la realizzazione di una pubblicazione sotto forma di fotoromanzo – seguendo un’estetica particolarmente vicina alla sensibilità di Sin Wai Kin – e di una serie di attività di approfondimento come incontri e laboratori didattici rivolti ai bambini: il primo appuntamento in programma è domenica 14 maggio, con un workshop creativo dedicato alla fascia d’età tra i 5 e gli 11 anni.